I giorni della cuccagna

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Un’altra delle mie storie  dedicate all’Arno, in occasione del cinquantenario dell’alluvione, selezionata per il libro di autori vari “Racconti toscani”, pubblicato in questi giorni da Historica Edizioni.

I giorni della cuccagna

Innumerevoli sono le peregrine esistenze finite in silenzio a spegnersi nel grembo del fiume. L’acqua, quel liquido cosmo che è culla della vita, può anche, e in modo atroce, strozzarne il respiro. Ed emana, come ogni abisso, un’attrazione fatale, a volte, un richiamo a lasciarsi andar giù, in una buia vertigine di oblio, tra matrigne braccia materne. Non per nulla le antiche genti, assai più di noi sapute di mistero e invisibile, mari e fiumi li avevano popolati di ninfe, ondine e sirene, tentatrici e ammalianti creature di perdizione. Né sono mancati, quando in Arno ci si bagnava, gli annegati per disgrazia. Alcuni ne ho visti, gonfi e tumefatti, di altri ho sentito dire. Mi viene in mente, ad esempio, la triste vicenda di un pittore che sulla riva, nei pressi di Capraia, si era messo a dipingere il panorama dell’antistante villa Medicea. Per ristorarsi dalla calura estiva aveva pensato bene di fare un bel bagno. Ma era quella l’area di escavazione di una draga, ferma quel giorno per la festività, e sul letto del fiume s’aprivano all’improvviso, a creare vortici e mulinelli, inimmaginabili profondità. E la sua tela rimase lì sulla sponda, stagliata sul cavalletto, triste ed insensata, incompiuta come ogni vita, e chi sa dove sarà poi finita.
Prima di quelle escavazioni di tipo industriale difficilmente c’erano stati annegati. Le genti di una volta poi, nel fiume erano nel loro brodo. I più vecchi raccontavano che dalle grotte di Pagnana, in Arno ci facevano i tuffi da grande altezza, prima che la collina di Cerreto Guidi, negli anni settanta, fosse sbancata per far posto a una strada. Per non parlare dei ragazzi che facevano a gara ad attraversarlo con la piena, e vinceva non chi arrivava primo, ma chi veniva trasportato meno a valle dalle impetuose e torbide correnti. Ma l’Arno, nel suo instancabile scorrere, non solo tristi storie, e sudore e duro lavoro, ha visto e portato con sé, ma assai più benefici e occasioni di sport e divertimento. Come, ed è un ricordo indelebile della mia infanzia, la cuccagna.
Nel pomeriggio di un giorno festivo, per la fiera del paese, richiamati dall’annuncio di un altoparlante sopra una Fiat Topolino, ci siamo radunati sulla piazzetta prospiciente il fiume. Noi ragazzi eravamo in tanti, tutti gasati dalle più strabilianti aspettative che quel nome magico e le frottole dei più grandi, ci avevano evocato e ci davamo l’un l’altro a credere.
Si stava già lasciandoci frettolosamente dietro gli anni cinquanta, ed io dovevo essere in quinta elementare. L’Arno non era già più quel paradiso di pesci e ranocchi in cui, come in un sogno, mi ero immerso anch’io, appena tre o quattro anni prima, e nessuno si azzardava più a farvi il bagno. Non c’era ancora il nero oleoso delle industrie chimiche e tessili, né le candide e spumeggianti schiume dei bucati sempre più bianchi, e tantomeno i sacchetti di plastica e tutti i colorati doni del consumismo dei nostri giorni. Era allora il tempo di ceramica e vetrerie, e le ciminiere sovrastavano, sempre più alte e fitte, i campanili, e le sirene delle fabbriche avevano preso il posto delle campane, nello scandire i ritmi di vita di paesi e campagne. Sulle sue sponde si arenavano allora in gran numero le bottiglie di vetro, che noi bambini ci divertivamo a rigettare in acqua, con dentro improbabili richieste di aiuto, come avevamo visto al cinema. Ma i paesi e le città a monte, sempre più popolosi per l’abbandono delle campagne e sempre più inquinanti, scaricavano direttamente nel fiume e i colibatteri certo vi andavano a nozze. Oggi, iniziative del genere, per di più sponsorizzate dal Comune, sarebbero impensabili, ma sino ad allora certi problemi non si erano mai posti e assente era qualsivoglia sensibilità e normativa.
Sulla prua di un barchetto ormeggiato, di quelli grandi dei renaioli, era stato fissato un palo, inclinato verso l’alto, sporgente per diversi metri sull’acqua. Lungo quell’asse, tondo, liscio e generosamente spalmato di sapone, erano stati appesi i premi in palio, cinque o sei tra polli e anatre, già spennati e disposti ad altezze diverse.
Sul palcoscenico della singolar tenzone, incoraggiati da un timido applauso, si fecero avanti in due. Imponenti e spettacolari, messi a fuoco nella loro fisicità dai ristretti costumi da bagno, a noi bambini apparvero come due veri duellanti di quei film storici di cui si faceva allora indigestione, la domenica pomeriggio, al cinema parrocchiale di Montelupo.
Non poteva mancare i’ Lollo, un contadino del piano, uno degli ultimi giovani rimasti nei campi, un moretto così bruciato dal solleone da sembrare un africano. Aspetto che gli conferivano ancor più i capelli, fini e ricci. Tutto nervi e muscoli, nodoso e tirato come un tronco di ulivo, andava sempre scalzo e, a tempo perso, arrampicandosi come una scimmia su altissimi pini, si industriava pure a vendere i pinoli cotti. Allora, a dire il vero, anche noi bambini di campagna, le scarpe, per non impolverarle, si mettevano solo all’ingresso del paese, e sugli alberi, almeno quegli che offrivano appigli, pure noi ci eravamo di casa nei nostri giochi. Ma lui, che era un adulto, ci pareva un mezzo selvaggio e ci metteva pure un po’ d’inquietudine.
Lo sfidante, i’ Giga, era invece un muratore, credo vicino alla quarantina, conosciuto e additato da tutti perché scorrazzava sulla sua Guzzi rossa per le stradelle di campagna. Uno sfegatato anche lui, e, proprio per questa sua passione per le moto, un capameno, una testa calda, diceva la gente, che gli aveva già sentenziato che quella sarebbe stata la sua fine. Purtroppo, come si sa, a pensar male quasi sempre ci si azzecca, ed egli in seguito, proprio in sella al suo cavallo d’acciaio, sarebbe tragicamente scomparso. Ma sarà stato poi vero che correva come un matto, o piuttosto, i suoi giudici, poco o niente motorizzati, avevano ancora come scala di riferimento la velocità dei carri e dei barrocci? Tant’è che il mare, oggi alle porte di casa e raggiungibile in poco più di un’ora, ci appariva a tempi e spazi sperduti e sconfinati, di cui c’era arrivata qualche remota eco dagli ultimi pastori di passaggio sulla via Maremmana, che facevano sosta negli stazzi di Ruzzolapaiolo. E quel bolide rombante, che terrorizzava cani e galline e lacerava la quiete delle campagne, la Guzzi Zigolo, era credo meno potente di una 125 dei nostri giorni.
Il confronto tra i due era improponibile. I’ Giga, che aveva almeno una quindicina di anni in più ed era sposato, mostrava già, al di sopra della cintola del costume, le mollezze di una pancetta incipiente e le maniglie dell’amore. Nettamente più massiccio era abituato certo a lavori pesanti, ma qui si richiedeva leggerezza e agilità. Istintivamente io, che sono stato sempre predisposto a fare il tifo per il perdente e sempre ho preso le parti degli Indiani contro “i nostri”, odiosamente sempre e comunque vincitori, ho immediatamente parteggiato e tifato per lui. Che pareva promettere bene, perché partito per primo per sorteggio, ha subito afferrato un pollo, il più basso e vicino. Poi più niente, anzi, dopo cinque o sei tuffi a vuoto, stanco e avvilito, si è rimesso l’accappatoio e si è seduto ad osservare il rivale. Che da quel momento si è esibito in un monologo. Ma si è dovuto sudare assai l’arrosto, perché i premi erano sempre più difficili da raggiungere e la cosa è andata molto per le lunghe, e solo grazie alla sua non comune resistenza è riuscito nell’impresa di far piazza pulita. Per l’ultimo poi, troppo in alto e lontano, ha dovuto lanciarsi in aria e artigliarlo al volo, durante la ricaduta. E grande era la nostra partecipazione, con applausi a ogni colpo riuscito, grida e risate agli scivoloni e ai tuffi scomposti. Tant’è che il ricordo di quella gara, non se n’è più andato dalla mia mente.
Ma i giorni passano e per tutti finisce la cuccagna. Non ne erano passati neanche tanti che, a un ritmo vertiginoso e inarrestabile, l’acqua andò così degradandosi che dalla puzza non ci si poteva più avvicinare al fiume, e a tuffarci un piede si rischiava di tirarlo fuori corroso. Come accadde a mia mamma, durante l’alluvione del ’66, che essendosi tanto arrabattata per mettere in salvo polli e conigli, con gli stivali di gomma sommersi dal livello dell’acqua, si procurò delle profonde erosioni ai polpacci, che le rimasero per tutto il resto della vita.
Sulla piaga dell’inquinamento e sui disastri prodotti dall’escavazione selvaggia della rena con impianti fissi, come di cosa che fa male al cuore, preferisco stendere un velo pietoso. Voglio solo rammentare che dal tipo di rifiuti, dai colori e fetori, intorno e dentro al fiume, si potrebbe ricostruire tutta la storia industriale e sociale del nostro paese. Così come, l’apprezzabile miglioramento del suo stato negli ultimi anni, è l’attestazione della crisi e della fine di certe produzioni industriali, piuttosto che di comportamenti più virtuosi. E per la cuccagna c’è posto solo nei ricordi.
Ne viene fuori la storia di una profonda inciviltà, di una noncuranza sistemica verso la natura e gli uomini, di un’avidità e un’ingordigia senza limiti. Come quella che portò molte draghe a scavarsi la buca sotto i piedi, fino ad essere poi inghiottite, per l’alluvione, dal vecchio impassibile Arno; che, tutto sommato, sopravvive ogni volta alla tracotanza di ospiti passeggeri e fuggevoli come la sua corrente.

 

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2 pensieri riguardo “I giorni della cuccagna

  1. Che bello, Sergio. Complimenti! Ti seguirò qui. Finalmente riesco a leggerti!😊

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    1. Ho aperto un blog, con molte difficoltà e non so bene neanche come funziona. Perché le cose lunghe su facebook ci vengono male. Ho messo tutte le mie cose che sono state pubblicate su antologie di autori vari. Nel tentativo di pubblicizzarmi un po’ per quando autopubblicherò il mio libro in poesia

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