La festa di Halloween da noi è solo una carnevalata, e niente ha di sacrilego (il sacrilegio è una profanazione del sacro e richiede una profondità spirituale inarrivabile per le testoline distratte e frastornate da mille vanità della gente di oggi). Ha motivazioni esclusivamente commerciali, la solita occasione di profitto con i soliti rituali consumistici del divertimento di massa, per lo più di cattivo gusto. Che incontra tanto successo per il bisogno della gente di mascherarsi (sembrare altro da quello che siamo, si pensi al “Lucca comics”) e di evasione da una realtà evidentemente non appagante. “La danza macabra”, o “La caccia selvaggia” non sono temi ripresi in chi sa quale estranea o esoterica tradizione, sono anzi raffigurazioni tra le più diffuse negli affreschi delle nostre chiese medievali. Scene che però un tempo incutevano paura e avevano lo scopo di ricordare a tutti che la fine era vicina e inevitabile, e bisognava prepararsi per quel momento. Di storie di anime del Purgatorio, che andavano in giro con i lumicini quella notte, e portavano via i vivi che incontravano, ce n’erano a bizzeffe, e siccome ci credevano davvero, si cercava di prendere delle contromisure. La stessa recita del rosario, con tutta la famiglia riunita, per la pace delle anime dei defunti era sì una commemorazione dei propri cari, ma aveva per scopo anche che i defunti se ne restassero in pace nell’al di là e non venissero a disturbare i vivi. La notte dei morti dava luogo a riflessioni, rimpianti e tristi ricordi. Oggi come tutto è ridotta a spettacolo, burletta, rimozione della nostra condizione esistenziale e sociale. Per rievocare quegli antichi stati d’animo una poesia quasi inedita di Giovanni Pascoli, tratta dal suo “Diario autunnale”.
Torre di san Mauro
Dormii sopra la chiesa della Torre.
Cantar, la notte, udii soave e piano.
Udii, tra sonno e sonno, voci e passi,
e tintinnare il campanello d’oro,
ed un fruscìo di pii bisbigli bassi,
ed un ronzio d’alte preghiere in coro,
che dileguava a sospirar lontano.
A sospirar così soave e piano!
Era una messa. Santo! Santo! Santo!
Ma eran voci morte che cantare
udii la notte fino sul mattino:
un morto prete curvo su l’altare,
un bimbo morto ritto sul gradino,
con su le spalle il suo lenzuol di lino
in che l’avvolse la sua madre in pianto.
Era la messa. Santo! Santo! Santo!
Ma sul mattino ecco garrir gli uccelli:
– No: era il vento quel ronzio che udisti,
erano pioggia quei bisbigli bassi.
Frusciavan alto i vecchi abeti tristi,
brusivan cupo i tristi vecchi tassi.
Erano foglie, foglie secche, i passi,
cadute ai vecchi tigli, ai vecchi ornelli.
Così garrendo mi dicean gli uccelli.
E i vecchi alberi: – Il tempo, come corre!
Quel campanello era il tuo vecchio cuore,
in cui battean vecchie memorie care;
ma le altre voci, fievole o sonore,
di noi, non le potevi ricordare…
Siamo di dopo!... A quei tuoi giorni, pare,
tutto era a prato avanti quella Torre.

