San Francesco, ovvero Pacem in terris

Anche il lupo più cattivo,
con l'amore è remissivo

“Amor, ch’a nullo amato amar perdona…”, l’amore che non consente a chi è amato di non riamare, scriveva Dante, secondo i canoni del dolce stil novo, dell’amore passionale di Paolo e Francesca. Un concetto che come meglio non si può esprime il carattere dirompente e contagioso dell’amore per Dio e le sue creature che esondava da san Francesco.    tutti sanno il Santo non fu solo un laudatore e mistico dell’Altissimo, ma altrettanto, e forse di più, si prodigò instancabilmente per riparare la casa di Dio e degli uomini. Preso dal sacro fervore di portare ovunque pace e bene si recò anche oltremare in mezzo ai Saraceni per convertire il Sultano d’Egitto.

Ma l’emblema e il modello più appropriato di pacificazione tra gli uomini ce l’offre l’incontro col lupo.  Oggi c’è un gran parlare ‒ non però un giusto agire ‒ di natura e di lupi.  Francesco si sentiva davvero fratello degli animali in Dio, ed era solito parlare loro, nella lingua dell’amore universale.

Ma il lupo di Gubbio dei “Fioretti” non è un animale. Dietro quel simbolo del male, come era considerato il lupo a quei tempi, s’intravede inconfondibilmente un essere umano. Si trattava molto probabilmente di un feudatario che imponeva con la forza balzelli a quella città, e il Santo si offrì come mediatore per porre fine alla questione. Ne seguì una trattativa in cui ognuna delle parti riconobbe anche le ragioni dell’altro e rinunciò a qualcosa del suo.

La stretta di mano sulla pubblica piazza, davanti a tutto il popolo riunito, è il classico sigillo con cui, fino a non molti anni fa, si siglavano le compravendite e i patti.  Si trattò di un vero e proprio atto sociale e politico di riconciliazione, cosa in cui era maestro (tanto da aver cercato di convincere pacificamente il Sultano).

Non una singola conversione quindi, ma un fatto collettivo, un’opera di negoziazione tra le parti: ciò di cui oggi ci sarebbe tanto bisogno. Perché la pace si può ottenere solo rinunciando a una parte dei propri interessi e delle ragioni che alimentano il conflitto e accogliendo parte delle ragioni dell’altro, in una superiore ragione comune su cui basare la fraterna convivenza. Insomma, come predicava il Santo, si può convertire il nemico solo cambiando se stessi.

   Davanti alla ineguagliabile rappresentazione dei Fioretti e alla poesia vivente dell’anima del Poverello non ho saputo resistere alla tentazione di cercare di renderne lo spirito in versi.

Il lupo e il Santo

Va Francesco sulla ghiaia:

porta pace, sparge gioia.

Ma sull’erta verso Gubbio

ecco un lupo truce e dubbio.

Disse il Santo: “Caro lupo,

perché il mondo vuoi far cupo?

Perché mai il tuo ululato

a turbare va il creato?

Le colombe e le gazzelle

sono buone e a noi sorelle.

Perché allor per la tua gola

sbrani la pecorella sola?”.

Berciò il lupo: “Maramao!”.

Ti sei messo in un bel guaio!

Gli “uomini buoni” coi loro strali

ruban dal bosco cervi e cinghiali.

Chi mi difende casa e terra

se non fo anch’io la guerra?

… O mi mostri che hai ragione,

o di te fo un sol boccone!”

E Francesco con amore

dal suo cuore gli offrì un fiore:

«Gusta il nettare e il miele,

male è il sangue, amaro il fiele”.

Tacque il lupo sconcertato

dal dolciore nel palato

e poi disse: “Che è mai

quel rosolio che mi dai?

Mai sentii tanta dolcezza

con tra i denti una capretta”,

e senza ansia né rimorso

ingoiò il fiore in un morso.

Disse il Santo: “È l’amore

che alle cose dà sapore.

In pace e amore coi fratelli

avrai giorni lunghi e belli.

Recalcitra il lupo, non vuole davvero;

mostra i gran denti, poi dice sincero:

“Se non fo la guerra che mangerò?

Di fame e botte io morirò!”

E allor la voce, nel petto del Santo,

si trasmutò in dolcissimo canto.

“… Fratello nostro, la vita è bella,

se il sangue lasci e segui la stella.

Pentiti adunque della tua vita

di egoismo e vuoto tutta infarcita.

Vomita fuori l’odio e il tormento

che a mordere gli altri ti ansima dentro.

Stendi le membra, e sciogli il cuore,

la porta schiudi al nostro Signore,

e la bocca che il fratello ha straziato,

dolce protendi a baciare il creato”.

… Piangeva il lupo e come un agnello

si prostrò ai piedi del poverello,

e mansuetamente, con gesto strano,

pose la zampa sulla sua mano.

   Ancora increduli accorsero tutti,

gente perbene e tipi brutti.

Sollievo grande, e di gioia pianto,

e ancora vivida la voce del Santo:

“Ma pure voi non gli fate più guerra,

e lasciate al lupo un poco di terra.

Iddio donò a tutti il pane e la rosa,

non vogliate mangiar voi ogni cosa.

… E ognun si penta del suo peccato

che odio e morte ha scatenato”.

   Tutti per mano girano in tondo,

insieme al lupo, che finimondo!

Si canta in coro, si loda Iddio,

che mandò in terra quell’uomo pio.

Il lupo gioca con i bambinelli,

mangia coi cani e i soffici agnelli.

   Così finì un flagello del mondo,

con tanti canti e un girotondo.

(Estratto dal mio libro “Ultreya e Suseya.! Il Giubileo e i pellegrini, ieri e oggi. “, pagg. 133-138)

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