Corre frenetico il tempo dell’Avvento, la grande commedia della distrazione di massa e del consumismo compulsivo e orgiastico si consuma. Il Natale si lascerà dietro montagne di rifiuti maleodoranti, cimiteri di sogni abortiti e volti depressi. E tra i cassonetti traboccanti spunteranno ancora, e ancora più brucianti, gli occhi dei derelitti, i volti scheletriti dei poveri del mondo. Il nostro tempo l’anima l’ha già venduta da un pezzo. Malafede e ipocrisia ne celano la vacuità. Ma parole troppo umane e accomodanti, sentieri senza sbocco, domande senza risposta, si aprivano già nell’antica narrazione di quei propositi di rinascita e vita nuova. Come ho cercato di mettere in luce io, nei versi che seguono. Sono un estratto dal mio poema “La via santa”, narrazione poetica di pellegrinaggio e fede nel Medioevo.
Nella notte di Natale
Nella notte di Natale, c’è qualcosa che va male. Forse, forse, forse è il mondo che girar non vuol più in tondo, o è un bimbo nato vecchio che s’è visto nello specchio.
Cantan gli angeli e le stelle, che mai rode sotto pelle? E quei cori di campane di anno in anno più lontane?
Ombre incalzan l’uom ch’è solo, … voci d’altrove, astri similoro. Nel gran freddo della notte c’è chi geme nella botte. Come puoi restare a letto, mentre muore il pargoletto? …………………………… Che portò mai il bel Bambinello tra il mite bue e lo spelato asinello? Una fulgida e chiomata stella, di tutte quante assai la più bella?
Ma vaga rimase su nel bel velo che ad arte copre il buio del cielo. Piange qua giù, la gente ancora, muore e nasce nella livida aurora.
Doglie non vedi di vita nuova, ma ombre cupide di nero dolore la neve accoglie, nasconde e cova, che gli occhi spengono ai buoni di cuore. Ed un bambino fatto di sogno di vita e pane non ha bisogno.
E quei tre re remoti e strani, un po’ pavoni, un po’ marziani, piovuti dai cieli infidi d’Oriente a vedere e offrire… il niente.
Venuti pomposi da un paese lontano a portar quel che v’è di più vano: incenso, mirra e puro oro, malanno grande, più che tesoro.
Meglio l’oro della paglia che la falce a luglio taglia, del metallo eterno e puro, per la bocca freddo e duro.
E l’incenso che in Alto sale? Alchimia triste del Carnevale. Su, non arriva, infino al Cielo, a questo mondo, di nebbia, fa un velo.
A consacrar va reami di terra, d’ingiustizie rei, di fame e guerra: marcio ricopre, lutti e fetore, prosperar lascia male e dolore. Effluvio cupo è del Divisore. E va ai cadaveri, l’aulente mirra, viva, per vivi, la bionda birra!
Nel cuor poi della povera culla, quale luce o ben si trastulla? Chi è che nasce, tra le ambasce? Da una vergin, lo si sa, nessun fiore sboccerà.
Forse solo un folle sogno di cui il mondo non ha bisogno. Forse un fremito del Nulla piange e ride nella culla.
Non ci salva, non è Santo… La Madonna non aveva il manto, sol conobbe doglie e pianto! Non ebbe corone, non ebbe niente, ed altro aveva per la mente!
Capponi, scrofe e ricciarelli, scroccan conti nei castelli; e al villan barba fan e capelli! Superbi, oziosi e dai cuori duri, succhian la vita dai bui tuguri.
Forse i Tempi son maturi! Il cavaliere, lancia in resta, mette fine ad ogni festa.
Via dal Tempio i commedianti, baciapile e mercatanti, via pure l’asino ed il bove, serviranno più altrove…