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Un macigno enorme, un monolite cupo ed informe di un’era primordiale, muto e tristo testimone di tanti misteri e storie di vita e morte sulla grande via maestra. Sovrastante la via tosco-romagnola, un tempo detta provinciale Strada Regia Pisana, nel tratto tra Sanminiatello e Porto di Mezzo, sulla riva sinistra dell’Arno. Neanche i tedeschi, che l’avevano minato durante la ritirata per bloccare la circolazione, riuscirono a scalfirlo. E’ detto anche masso delle fate perché lì, pare, si riunivano le streghe le notti di plenilunio. L’equivalente del noce di Benevento, appunto. Della stessa scura roccia e forma dell’altro grande masso, molto più in alto, proprio sulla cima del Montalbano, con impressa la pedata del diavolo. Che altro non era che un’ara etrusca con le scanalature per far scorrere il sangue dei sacrifici. Due moli di pietra unite da un cordone ombelicale o magico filo. Nessuno, la notte, si sarebbe avventurato a passare dalle gole della Gonfolina. Per arrivarci si doveva attraversare una delle zone più impervie del corso dell’ Arno, una lunga strettoia dove non dà mai il sole, e dove, tra i folti e ripidi boschi, si annidavano bande di briganti e assassini. I barrocciai, ancora prima e subito dopo la guerra, per affrontare quel tratto si fermavano e aspettavano di formare una bella comitiva per essere più protetti. Mio padre raccontava sempre di un noto sensale di Montelupo, che era andato al mercato alla Lastra, e il suo cavallo era tornato al paese col suo cadavere, accasciato sul calesse, traforato dai pallettoni. Giovanni Pascoli su una storia del genere accaduta al padre ci scrisse “La cavallina storna”, ma a quanto pare, a quel tempo, erano cose abbastanza comuni.