LE VIOLE MAMMOLE

C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d’antico: io vivo altrove, e sento
che sono intorno nate le viole.
Son nate nella selva del convento
dei cappuccini, tra le morte foglie
che al ceppo delle quercie agita il vento.

Si respira una dolce aria che scioglie
le dure zolle, e visita le chiese
di campagna, ch’erbose hanno le soglie:
un’aria d’altro luogo e d’altro mese
e d’altra vita: un’aria celestina…

Così Giovanni Pascoli iniziava la poesia ”L’aquilone”. Già,  le violette che sbocciano nei boschi già a febbraio, che festa erano una volta per i bambini. Tutti gioiosi andavamo a gruppi, e spesso insieme a tutta la classe durante le ore di scuola, a coglierle. E si riempiva la scuola e le case di quei delicati, timidi e profumatissimi fiorellini. Oggi non si sa più neanche cosa siano. Alla voce violette su internet trovi quelle che per me sono pansé, scintillanti di mille colori, che niente hanno a che fare con quelle selvatiche. E mancano del loro soave profumo.  Ma con tutti i fiori esotici, di dimensioni e colori spettacolari, che ci sono in giro, chi si chinerebbe più a raccogliere una minuscola violetta? Tutt’al più possono interessare per l’insalata (sono commestibili, ma dolciastre e un po’ stucchevoli, per mangiarle meglio le primule selvatiche). Certo che sono ben lontane da rievocare l’anticaatmosfera di questa poesia per le Elementari di Ada Negri.

Le violette

Anche quest’anno andrai per violette
lungo le prode, nel febbraio acerbo.
Quelle pallide, sai: che han tanto freddo,
ma spuntano lo stesso, appena sciolte
l’ultime nevi; e fra uno scroscio e un raggio
ti dicono: «Domani è primavera.»
Ogni anno ti confidi al tuo tremante
cuore: «È finita», e pensi: «Non andrò
per violette, non andrò mai più
per violette – ché passò il mio tempo –
lungo le prode, nel febbraio acerbo.»
Invece (e donde ignori, e da qual bocca)
una voce ti chiama alla campagna:
e vai; e i piedi ti diventano ali,
sì alta è la promessa ch’è nell’aria.
E per amor dell’esili corolle
quasi senza fragranza, ma beate
d’esser le prime, avidamente schiacci
con gli steli la zolla entro le dita.
O sempre nuova, o non guarita mai
dell’inquieto mal di giovinezza,
a chi dunque darai le tue viole?
A nessuno: a te stessa: o, forse, ad una
fanciulla che ti passi, agile, accanto,
e ti domandi dove tu l’hai colte:
sola n’è degna, ella che fresca ride
come il febbraio; e non si sa qual sia
più felice, se ella, o primavera.

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