Il giro delle sette chiese

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Non è un modo di dire, ma è quello che si faceva il Venerdì Santo.                                           Era tradizione, fino agli anni ’60, di andare per le chiese in visita ai Sepolcri, preparati al termine della messa del giorno precedente. Era come un piccolo pellegrinaggio, un percorso penitenziale a  commemorazione della Passione di Gesù, in vista della Pasqua. Non lo facevano tutti, ma in genere le donne e i bambini, anzi, più spesso, le nonne e i nipotini. Una consuetudine nata dall’usanza di visitare sette basiliche a Roma per ottenere l’indulgenza, cioè la remisssione delle pene per i peccati commessi; indulgenza che poi era stata estesa anche fuori dall’Urbe.  Ora, se a Roma trovare sette chiese non è diffficile, nei paesi di provincia, di strada ne dovevi fare un bel po’, e a piedi, ovviamente.

Si partiva nel primo pomeriggio vestiti a festa, con l’abito dellla domenica; ma  scalzi,  se era già caldo, con le scarpe in mano fino al paese.  Le scarpe allora erano verniciate e lucide e si sarebbero scortecciate contro i sassi e impolverate tutte. Ci si mettevano alle prime case, sul lastricato. Per arrivare al paese erano già  più di due chilometri, ma per fortuna, di chiese ce n’erano due, in Castello e Borgo. Un’altra si rimediava a Montelupo e, ancora, non tanto lontano, a Samminiatello. Poi si doveva tornare indietro e arrivare, in salita, alla chiesa medicea dell’Ambrogiana. Si era così a cinque, e per la sesta  ci si spingeva più avanti, a una chiesetta, Santa Lucia, oggi  sconsacrate e adibita a museo. Per la settima ci si arrangiava con una cappellina, l’Oratorio dell’Erta, sulla via del ritorno.  A ogni tappa c’erano da recitare cinque Pater, Ave e Gloria, in ginocchio davanti al sepolcro. Le campane quei giorni erano legate e le immagini e gli arredi sacri e le reliquie erano coperti da paramenti viola in segno di lutto.  Si respirava un’atmosfera di festa, sì, ma da festa triste.

Ma quel che più mi è rimasto impresso di allora sono i grandi busti dei vitelli nelle macellerie, squartati e appesi ai ganci davanti al bancone, ben visibili anche dall’esterno, e che in quei giorni venivano ornati di ghirlande di fiori. L’odore di carne cruda e sangue, allora assai forte nelle macellerie, e quei grandi corpi esangui esposti e inghirlandati di rose, più degli stessi cupi Sepolcri, mi davano l’idea della morte e di Gesù appeso e pendente dalla croce.

Ma non mancava poi l’allegria.  Bastava, a darcela, qualche bancarella davanti alla chiesa, con brigidini, lupini, semi di zucca, ammazzasuocere. E qualche palloncino, e quelle trombette di carta lucida avvolta a spirale che soffiando si distendeva con un suono gracchiante, e quei palloncini col fischio che si gonfiavano da un beccuccio e sgonfiandosi suonavano da soli. Piccole povere cose che ai bambini di allora un po’ di gioia nel cuore riuscivano ad accenderla.

All’imbrunire si tornava a casa, soddisfatti di aver fatto il nostro dovere, e col pensiero già al prossimo impegno, le uova sode da colorare e far benedire in chiesa per Pasqua.  Qualcuno quel giro continua a farlo tutt’oggi, ma con l’automobile, e allora di chiese ne dovrebbe visitare almeno quattordici.

 

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