Dante e… Salvini

Per il Dantedì propongo un episodio del mio poema in rima baciata “La via santa”.  La raffigurazione del sommo poeta è limitata alle sue concezioni ideologiche.  In questa prospettiva, sfogliando le tre cantiche,  appare un Dante visceralmente chiuso al rinnovamento sociale ed economico che avrebbe portato alla grande fioritura del Rinascimento. Il poeta, come aveva già rilevato Edoardo Sanguineti e conferma sostanzialmente Barberio, era un odiatore del popolino (i ceti sociali mercantili e bancari ascendenti), contrario a ogni mobilità e ascesa sociale, alle facili fortune, ai parvenus, alla nascente civiltà comunale dove le cariche si assegnavano per il peso economico, ostile ai forestieri (che allora erano gli immigrati da Campi, Mugello o Casentino). Né mancano invettive e luoghi comuni contro le donne fiorentine del suo tempo, che gli paiono incuranti dei figli e interessate solo a truccarsi e a esibire il seno.

Cose che si sentivano dire con le stesse parole all’inizio degli anni ’60, di fronte al rivoluzionamento della società e dei costumi indotto dall’industrializzazione. Tutto un florilegio di luoghi comuni che in un tempo di crisi e profonde trasformazioni come il nostro non poteva non tornare e rimbomba più che mai, amplificato dai social, dalla bocca di certi politici che oggi vanno per la maggiore.

 Beninteso, con tutto ciò non si vuol certo sminuire la personalità dell’Alighieri, o tantomeno nobilitare questi personaggi odierni, solo mostrare che certi discorsi, che rimpiangono il passato e vedono il presente e futuro come decadenza, oppure la paura del nuovo e del diverso, come insegnava Umberto Eco, sono sempre gli stessi dai tempi dei tempi.  È poi doveroso aggiungere che il sommo poeta non era davvero un sovranista o nazionalista, ma auspicava anzi un Impero Universale in cui vi fosse pace e giustizia per tutti.

La scena si immagina si svolga davanti al castello dei Malaspina a Fosdinovo

A piè d’un castello cupo e irto di spine

A piè d’un castello cupo e irto di spine,

donde s’avvista ciel in mar perder confine,

piccolo nella persona e faccia altera,

lungi guardava, fiso nella bassa sfera.

La cappa, intorno a sé, stretta e tirata,

rompeva l’aere, la voce del vate.

   «Per qui si va tra la perduta gente,

ove speranza manca, fede e onore,

di leone, lonza e lupa morde il dente,

e sangue corre, a cagion d’opposto colore».

   L’aguglia in ciel volgeva lente ruote,

crepita al vento l’insegna del marchese,

gracchiava il corvo da lande remote,

rimbomba il tuono per valli scoscese.

   «I’ mi fugii de’ Toschi dalla Villa

di superbia e cupidigia sempre pregna,

che di discordia, invidia e ira sfavilla,

ingorda e rea d’ogni bassa vergogna,

di sangue suo e del vicin vermiglia.

   Di tracotanza e lacci ivi è la mecca,

di giustizia v’è mercato e cuccagna,

di lupi è tana, e volpe vi fa tresca,

non basta l’Arno, a lavar la magagna.

   D’ogni gente v’è feccia e marasma:

corron da Campi, da monti e palude,

da ombrosi porcili del Casentino,

scarpe grosse e cervello che prude,

cala il villano e si fa Fiorentino.

   Gli occhi protesi ai facili guadagni

ognuno trama, intriga e più mente,

e tele tessono e insidie di ragni…

E le anime barattano col niente.

   Né sta la donna al fuso e alla cuna,

tutta s’adorna e si colora gli occhi,

si fa sfacciata, e tutta s’improfuma,

e al fantolin non compra più i balocchi.

   Per che l’un vada a destra o a manca,

ovunque capra sta sotto la panca:

da Pistoia, a Lucca, a Arezzo e Prato,

pertutto genti dente hanno affilato…

   Se non bastasse, di là, oltre i monti

la villa v’è vituperio di genti

che carne di sua carne offrì a’ denti:

addentarla possano onde e feri venti!

E di qua Genova, col suo gran porto,

meglio sarìa, che ognun fossevi morto…

  «I’ fui nel gorgo che l’alme risucchia,

nel buco nero che talpa non specchia,

a eteree altezze ove aguglia non vola,

ove pura Lux Dei sempre s’onora.

   La sfrenata fame della gente nova

a Inferno e Dio pone novella prova.

Graffia avarizia, spoglia l’usura,

reclusa armonia e l’universal Grazia,

smarrito il limite e ogni misura,

geme la terra, il cielo si strazia.

   Di continenza ciaschedun vi manca,

dilaga orgoglio, lassismo e lussuria,

di tal gente la man divina è stanca

e vedrai presto castigo che infuria.

   Traligna Chiesa, che osteggia l’Impero,

 perso è l’ordine naturale e vero.

Infranti i cardini, ito ogni rispetto,

d’autorità rovinò mura e tetto.

Dalla gran falla, aperta la stalla,

dilaga e mugghia feccia e marmaglia.

   Villani e migranti la fan da padroni,

tutto ci rubano, superbi e felloni:

entra il bifolco e il faccendiere,

e l’occhio acuto del barattiere;

con la mercatura fanno tesoro,

e acquistan le cariche e il decoro.

Entra ’l mercenario e ’l masnadiero,

il lurco alemanno e l’uomo nero.

   Nella confusione di stirpi e ruoli

discordia cresce, prolificano i doli.

Non fa maraviglia che il sangue coli.

A che rifulge Amor sovra le stelle?

Amara è la terra, sorda e ribelle.

   Più amor d’altrui v’è, e men pietate,

l’amor gentile pur vele ha strappate,

e come il lupo ama il tenero agnello,

al dì d’oggi, usa amare, amatore,

per lussuria e ’l calore del vello,

per del sangue gustare il sapore.

   «Più non vo’ dirti dell’oscura valle,

che armonia ignora e gaudio di pace,

ove occluso ristagna ogni calle,

ove impera maligno il Rapace.

   A manca o a manritta vegeta il male!

Va il pellegrino a già perdute tiare…

Sola Salute nella Stella è del mare.

Amore solo, amor puro di donna,

al serpe schiaccerà il dente e le corna».

   Il gran vate rimira, il cavaliere,

il capo chino a sì eccelso parere,

né per niente può or rinunciare

al richiamo di azzurro-sol-mare.

   Nondimeno pur pensa, e nol dice,

via d’infido sogno, esser Beatrice:

altro, di Chi tutto può, il disegno

di Vita nuova e del celeste Regno.

   E il letame degli inurbati villani

profumerà di bei fiori domani,

e il soldo vilipeso del mercante

susciterà beltà nuova e eclatante,

e con sé recano, pur gli stranieri,

vita e aria fresca, freschi pensieri.

   E ’l bello e buono non è tutto andato,

amore e sole specchia ancora ’l creato.

V’han buone mamme, puttini e fiori,

belle e oneste dame, e di bei cuori,

e, se al monte fischia vento e bufera,

alla marina splende azzurra la sera.

   Tante e varie le cose al sol belle,

per quest’aiola sol, brillan le stelle.

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