Io che sono nato pochi anni dopo la Liberazione ne ricordo non le celebrazioni, ma piuttosto l’idea della “Resistenza tradita” che circolava tra chi vi aveva partecipato davvero. Ferruccio Parri ebbe a dire che a combattere erano in tre gatti, mentre dopo il 25 aprile tutti si dicevano partigiani: probabilmente le stesse adunate oceaniche che poco prima avevano osannato il Duce e la guerra. E i valori e gli ideali che avevano animato la lotta partigiana si tradussero molto poco nella nuova repubblica. Fu conclamata la continuità dello stato con lo stato fascista, e restò in vigore il Codice Rocco per la Giustizia, la riforma Gentile per la scuola, ecc. E molti che erano stati podestà continuarono ad amministrare come sindaci, e fu concessa l’amnistia e l’impunità ai crimini del fascismo e della guerra. Quest’idea della “Resistenza tradita o incompiuta”, serpeggiò ancora a lungo nel dopoguerra, tant’è vero che le armi non furono consegnate, ma nascoste nelle campagne in attesa di essere ancora usate. Anche il ’68 in qualche modo si illuse di riprendere e portare avanti questa lotta e tanti sessantottini si definirono, a torto, “i nuovi partigiani”. Questo senso della continuità dell’Italia repubblicana con quella fascista riecheggiava alla grande nella cultura di quegli anni, si pensi a “Cara maestra” di Luigi Tenco, una delle prime canzoni impegnate.
